Digressioni

ghiaino  3000. No vabbé. Non esageriamo. Facciamo 2500.
Tempo fa insieme a un mio amico abbiamo fatto il calcolo di quanti libri grosso modo si leggono nell’arco di una vita.
Abbiamo cercato di starci larghi: se si inizia a 15 anni e si legge fino agli 80, con una media di un libro per settimana, cioé 4 al mese cioé 48 all’anno, si arriva grosso modo a 3000. Per l’esatezza, 3120. Ora, tenendo conto che una media del genere è fin troppo ottimistica, ci siamo assestati sulla più ragionevole cifra di 2500 e forse saremmo dovuti scendere ancora.
Insomma, nel corso della propria vita un lettore accanito (e longevo) mette insieme 2500 volumi. Pochissimi.

ghiaino Le parole sono un prodigio. Ogni parola, nessuna esclusa. Anche quelle apparentemente sgangherate e goffe.E sono più quelle da ascoltare che quelle da dire. La parola nomina le cose e così facendo le crea.

Nuvoloni. Così venivano chiamati i francesi nel corso delle prime occupazioni napoleoniche a Livorno. Il termine deriva dalla storpiatura di Nous voulons… Nous voulons… che scandiva la lettura in piazza degli editti con cui i francesi stabilivano le regole esigendone il rispetto. Ovviamente i livornesi  non potevano che manifestare insofferenza verso le imposizioni. A partire proprio da quel Nuvoloni, espressione che racchiude in sé tutta l’irrisione nei confronti dell’autorità.

Sciabigotto. Termine popolare lucchese, tuttora in uso. Sinonimo di ‘buono a nulla’, ‘incapace’, potrebbe essere di matrice versiliese, poi importato. In questo caso, farebbe riferimento alla rete sciabica utilizzata dal pescatore che, ormai non più in grado di andare per mare aperto, è costretto a rimanere nelel acque basse. Oppure il termine potrebbe derivare dalla commistione di ‘sciapito’ e ‘bigotto’. Un’altra ipotesi ancora chiama in causa gli ufficiali dell’esercito napoleonico, che avrebbero apostrofato i cittadini lucchesi come chiens bigots (ovvero: ‘cani bigotti’), poiché restii ad applicare le norme dell’Editto di Saint Cloud.
Nuvoloni e sciabigotti. Dominatori e dominati. Oltraggiosi e vilipesi. Comunque sia, c’è un luogo ribelle e allergico alle regole che contesta l’autorità. È la funzione creatrice della parola.

Dago. Cambia il contesto, fondamentale per le parole. Non è più quello italiano ma americano. Eppure Dagos fa riferimento agli italiani o, meglio, è uno dei tanti epiteti insultanti cui gli americani ricorrevano per indicare gli italiani.
Di ‘Dago’ si registrano diverse varianti: Black Dago, Dago Red, Chianti Dago e così via. Chi ha letto i romanzi di John Fante, si è imbattutoin questo termine. L’etimologia anche per ‘Dago’ è incerta ma qualsiasi ipotesi è illuminante circa il ruolo degli italiani oltreoceano e la loro condizione. Il termine potrebbe derivare da They go, ad indicare gente che va e viene, che si sposta di continuo. Oppure da Dingo, il cane selvatico australiano.Altra ipotesi: dall’espressione Until the DAY GOES, cioé: finché dura il giorno. Un datore di lavoro non se la sentiva di assumere un italiano in pianta stabile. Meglio prenderlo con un contratto a brevissimo termine: a giornata – ‘finché dura il giorno’, appunto.

IMG_20160325_141317 La sera del 24 marzo 2016 sono stato alla Palo Alto Adult School, su invito della docente Stefania Filigheddu. Si è parlato di linguaggio, di identità, di mondi apparentemente lontani eppure così vicini, che si nascondono dietro le parole.
In questa circostanza ho scoperto che molte persone frequentano i corsi di italiano, che pare abbiano soppiantato quelli di yoga.  Partecipano ai corsi persone che non necessariamente hanno radici italiane ma sono innamorate della nostra lingua.
La domanda più frequente: “Mi dici qualcosa in italiano, per favore?”

manifmiche2_redThe novel Per il bene che ti voglio is a story about italian immigration to the States during the 30’s.

Now in its fourth printing, the novel speaks of the bittersweet experiences of the protagonist Antonio Bevilacqua as he emigrates from Lucca, Italy to San Francisco.
Some parts of the novel are written in ITALIESE: this is a hybrid of English and Italian. Italian immigrants adapted English words and phrases into their spoken Italian with results both curious and amusing. The book includes a dictionary which gives definitions of Italiese words used.

bayareaIn the late Twenties, Antonio Bevilacqua leaves the environs of Lucca, in hopes of an acting career in the off-Broadway theatres of San Francisco.
He comes from Fabbriche di Careggine, a little village in Garfagnana, the mountain region of Lucchesia (Tuscany).
Now Fabbriche di Careggine lies on the bottom of a lake after the construction of a dam. The dam has dammed the waters of the Edron river, creating an artificial lake. The town was evacuated. Every ten years the lake is drained for maintenance works on the dam. The ghost town emerges from the water.

In San Francisco Antonio comes into contact with the art world which centres on such figures as Ferlinghetti.
He is a DAGO, a CHIANTI, an ITHAKER.

For a time Antonio moves to Hollywood, where he is employed as a stand-in for Charlie Chaplin.
In the meantime, Antonio transformed himself into ‘Tony Drinkwater’ (the literal translation of his name)
He seems, therefore, to have found his ‘Merica’ of the ‘muvinpicce’ – a term derived from the English ‘moving picture’.
Tony speaks ITALIESE, an awkward yet somehow poetic half-English half-Italian pidgin used by the Dagos. For example, he says “giobbo” (from job), “stritta” (street), “corno” (corner), “sciumecca” (shoes maker).

In language as in life, Antonio Bevilacqua inhabits a no-man’s land between what he once was and what he has not yet become.
When Antonio goes back in Garfagnana, he is seen by villagers as an “american monster”. A reintegration is not possible anymore.

freccia_pibctv  The Italian Cultural Institute of San Francisco is pleased to welcome Italian author Michele Cecchini.
On March 22nd at 18:30 p.m., he will present his acclaimed novel, Per Il Bene Che Ti Voglio, in the main Gallery of the Institute.
Now in its fourth printing, the novel speaks of the bittersweet experiences of the protagonist Antonio Bevilacqua as he emigrates from Lucca, Italy to San Francisco.
Immigration is always in the news, and in this election year it is a top story.
This presentation will contribute to the current discussion.
The presentation will be in English, with some Italian where necessary and Italiese.
Italiese is a hybrid of English and Italian. Italian immigrants adapted English words and phrases into their spoken Italian with results both curious and amusing. The book includes a dictionary which gives definitions of Italiese words used. The presentation will include illustrations of several of these humorous additions to the Italian language. This is a must event for San Francisco Italian-Americans; it is our story.
The event begins with an Aperitivo and finger food provided by Piccino Restaurant at 18:30 p.m.
Come join us for an evening of Italian culture, Aperitivo, and maybe some Serie A predictions.
Register for the event.
The San Francisco Italian Cultural Institute is one of 90 located throughout the world.
Come see us in our new spacious location.
It is located in the Opera Plaza, 601 Van Ness Avenue in San Francisco.
It is only 3 blocks from BART and Muni stops in front of the Institute.

ghiaino

CIAO BORZ!

Abbiamo passato insieme così tanti momenti.
Ricordo una sera, lo scorso inverno, quando venni a trovarti al tuo studio di Pieve San Paolo. Mi misi subito a ridere della targa che avevi messo all’esterno: “Nobis sega interest”.
Era una sera fredda e umida e ricordo che al caldo di quella stanza parlammo per ore dei nostri progetti, delle cose da fare insieme e ciascuno per conto proprio. Scrivere il pezzo per il quotidiano, mi dicevi, ti costava sempre più fatica ma il gusto di rileggerlo ti ripagava. Mi dicevi che avevi un mezzo romanzo nel cassetto, parlava di America e ti sarebbe piaciuto portarlo a termine.
Ci dicemmo che è bello scrivere e chi se ne frega di ottenere onori quando si prova gusto nel rileggere una pagina, perché quella è la vera soddisfazione. Fu bello e imparai molto, quel pomeriggio.

Ogni volta che sei intervenuto a qualche incontro e sapevi che ero presente, non hai mai tralasciato di indicarmi tra il pubblico, mentre io divorato dall’imbarazzo mi ripiegavo e mi nascondevo e pregavo perché tu la smettessi. Una volta mi raccontasti che una lettrice aveva ravvisato una parentela tra la mia scrittura e la tua. Me lo dicesti con soddisfazione, la cosa ti aveva fatto piacere. Io ti risposi che potevi andare per avvocati e chiederle i danni.
Alla radio ci siamo esibiti, come tu dicevi, in “apocalittiche profezie e indecorosi luoghi comuni, sempre cercando di non sfigurare, noi e le nostre famiglie”. Nonostante le precarie condizioni di salute, non hai mai voluto mancare. Anche per telefono, durante una degenza in ospedale – “io dego”, esordisti.
Eri sempre il più vivace, il più intenso, il più vitale, mentre zoppicavi verso la postazione di fronte alla mia. Ancora ti vedo poggiare la tua pila di volumi sul tavolo e con le tue mani lunghe lunghe che un po’ tremolavano cercare la pagina da leggere, nel frattempo alzando lo sguardo per pigliarmi un po’ per il culo prima di cominciare. E quando cominciavamo, eri un leone: arguto, pronto, capace di giostrare la conversazione su più livelli, ribaltandola di continuo, con quella capacità tutta tua di dosare raffinatezze e espressioni gergali da “vecchia troia del linguaggio popolare”, come stamattina stessa mi hai scritto, in un messaggio che chi se lo immaginava fosse l’ultimo.
Il giorno dopo ogni trasmissione, mi scrivevi con entusiasmo di bimbo che continuavi a divertirti “come una merda” (sic) oppure che sembravamo aver cazzeggiato insieme da una vita. Avevi la rarissima virtù di chi adopera la parolaccia con quella grazia che la riscatta dalla volgarità e le attribuisce senso e pregnanza.
Hai sempre avuto tanti gesti d’affetto per me, tante righe e tante parole gentili, mi hai sempre incoraggiato. Ma non è di questo che voglio ringraziarti perché sarebbe un elenco troppo lungo.

Con te ho condiviso l’amore per la parola, quella parola che ti sfugge dalle dita e che è un po’ stronza, perché ti affascina e nello stesso tempo ti frega, accoltellandoti alle spalle. Dicevi così, più o meno.
Da te ho imparato che la forma è sostanza, nella scrittura e in tutto il resto: i tuoi modi eleganti sottintendevano la curiosità e l’amore per la vita di chi si accosta agli altri con gentilezza ed ha la capacità di ascoltare. Avevi la faccia tosta, ma non hai mai frequentato lo snobismo. Anzi, eri accogliente e invitavi alla chiacchiera. Una volta ti dissi che fare il Fillungo con te era come andare in processione: ti fermavi di continuo perché avevi una parola per tutti.
Ho apprezzato la tua goliardia soffusa che lasciava sempre aperto uno spiraglio al dubbio, al sospetto del paradosso e della presa di culo. Perché gli altri non dovevano mai capire se scherzavi o se dicevi sul serio. Era il tuo modo di comunicare che si può andare in profondità e nello stesso tempo ridere di tutto, e il fatto di non prendersi mai sul serio è un rimedio ai mali umani. Come quando mi raccontasti affranto dell’operazione in cui ti venne amputato il dito del piede e ti rammaricavi di non poter più indossare le infradito.
Ho sempre apprezzato e imparato dal tuo sguardo che andava oltre quello che si vede e credo che sia questa una delle cose più preziose che hai lasciato. Oltre alle parole, oltre ai libri a cui tenevi tanto.
Avrei di nuovo voluto ringraziarti per il truccheggiato che ci siamo bevuti l’altro giorno quando ci siamo fatti questo “serfi incazzato”. Ma non c’è stato tempo.

Se ne vanno i padri e ci si sente davvero soli.
“Rompere i coglioni è un talento che va esercitato quotidianamente”, mi hai detto una volta. Ecco, io ci provo ma non so se mi riesce. Ciao amico mio.

Michele

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ghiaino Parole all’alba di una domenica a Livorno

All’alba di una domenica mi ritrovo in giro per le strade di una Livorno grigia.
Non ho un posto da raggiungere. Ascolto il silenzio di una città assopita, abbandonata anche lei alla sua solitudine. C’è un filo di pioggia sottile che mi tiene compagnia.
Incontro un ragazzo senegalese: “Ombrello, capo?”.
Questo è il posto dove mi ritrovo e questi sono i momenti in cui mi riconosco, ma non saprei spiegare perché.
Livorno è bella così, quando riversa sulla tua anima tutta la malinconia, allora tu fai spazio e ti lasci attraversare.

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© 2024 Michele Cecchini

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