Michele Cecchini (Pagina 16 di 16)

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CIAO BORZ!

Abbiamo passato insieme così tanti momenti.
Ricordo una sera, lo scorso inverno, quando venni a trovarti al tuo studio di Pieve San Paolo. Mi misi subito a ridere della targa che avevi messo all’esterno: “Nobis sega interest”.
Era una sera fredda e umida e ricordo che al caldo di quella stanza parlammo per ore dei nostri progetti, delle cose da fare insieme e ciascuno per conto proprio. Scrivere il pezzo per il quotidiano, mi dicevi, ti costava sempre più fatica ma il gusto di rileggerlo ti ripagava. Mi dicevi che avevi un mezzo romanzo nel cassetto, parlava di America e ti sarebbe piaciuto portarlo a termine.
Ci dicemmo che è bello scrivere e chi se ne frega di ottenere onori quando si prova gusto nel rileggere una pagina, perché quella è la vera soddisfazione. Fu bello e imparai molto, quel pomeriggio.

Ogni volta che sei intervenuto a qualche incontro e sapevi che ero presente, non hai mai tralasciato di indicarmi tra il pubblico, mentre io divorato dall’imbarazzo mi ripiegavo e mi nascondevo e pregavo perché tu la smettessi. Una volta mi raccontasti che una lettrice aveva ravvisato una parentela tra la mia scrittura e la tua. Me lo dicesti con soddisfazione, la cosa ti aveva fatto piacere. Io ti risposi che potevi andare per avvocati e chiederle i danni.
Alla radio ci siamo esibiti, come tu dicevi, in “apocalittiche profezie e indecorosi luoghi comuni, sempre cercando di non sfigurare, noi e le nostre famiglie”. Nonostante le precarie condizioni di salute, non hai mai voluto mancare. Anche per telefono, durante una degenza in ospedale – “io dego”, esordisti.
Eri sempre il più vivace, il più intenso, il più vitale, mentre zoppicavi verso la postazione di fronte alla mia. Ancora ti vedo poggiare la tua pila di volumi sul tavolo e con le tue mani lunghe lunghe che un po’ tremolavano cercare la pagina da leggere, nel frattempo alzando lo sguardo per pigliarmi un po’ per il culo prima di cominciare. E quando cominciavamo, eri un leone: arguto, pronto, capace di giostrare la conversazione su più livelli, ribaltandola di continuo, con quella capacità tutta tua di dosare raffinatezze e espressioni gergali da “vecchia troia del linguaggio popolare”, come stamattina stessa mi hai scritto, in un messaggio che chi se lo immaginava fosse l’ultimo.
Il giorno dopo ogni trasmissione, mi scrivevi con entusiasmo di bimbo che continuavi a divertirti “come una merda” (sic) oppure che sembravamo aver cazzeggiato insieme da una vita. Avevi la rarissima virtù di chi adopera la parolaccia con quella grazia che la riscatta dalla volgarità e le attribuisce senso e pregnanza.
Hai sempre avuto tanti gesti d’affetto per me, tante righe e tante parole gentili, mi hai sempre incoraggiato. Ma non è di questo che voglio ringraziarti perché sarebbe un elenco troppo lungo.

Con te ho condiviso l’amore per la parola, quella parola che ti sfugge dalle dita e che è un po’ stronza, perché ti affascina e nello stesso tempo ti frega, accoltellandoti alle spalle. Dicevi così, più o meno.
Da te ho imparato che la forma è sostanza, nella scrittura e in tutto il resto: i tuoi modi eleganti sottintendevano la curiosità e l’amore per la vita di chi si accosta agli altri con gentilezza ed ha la capacità di ascoltare. Avevi la faccia tosta, ma non hai mai frequentato lo snobismo. Anzi, eri accogliente e invitavi alla chiacchiera. Una volta ti dissi che fare il Fillungo con te era come andare in processione: ti fermavi di continuo perché avevi una parola per tutti.
Ho apprezzato la tua goliardia soffusa che lasciava sempre aperto uno spiraglio al dubbio, al sospetto del paradosso e della presa di culo. Perché gli altri non dovevano mai capire se scherzavi o se dicevi sul serio. Era il tuo modo di comunicare che si può andare in profondità e nello stesso tempo ridere di tutto, e il fatto di non prendersi mai sul serio è un rimedio ai mali umani. Come quando mi raccontasti affranto dell’operazione in cui ti venne amputato il dito del piede e ti rammaricavi di non poter più indossare le infradito.
Ho sempre apprezzato e imparato dal tuo sguardo che andava oltre quello che si vede e credo che sia questa una delle cose più preziose che hai lasciato. Oltre alle parole, oltre ai libri a cui tenevi tanto.
Avrei di nuovo voluto ringraziarti per il truccheggiato che ci siamo bevuti l’altro giorno quando ci siamo fatti questo “serfi incazzato”. Ma non c’è stato tempo.

Se ne vanno i padri e ci si sente davvero soli.
“Rompere i coglioni è un talento che va esercitato quotidianamente”, mi hai detto una volta. Ecco, io ci provo ma non so se mi riesce. Ciao amico mio.

Michele

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ghiaino Parole all’alba di una domenica a Livorno

All’alba di una domenica mi ritrovo in giro per le strade di una Livorno grigia.
Non ho un posto da raggiungere. Ascolto il silenzio di una città assopita, abbandonata anche lei alla sua solitudine. C’è un filo di pioggia sottile che mi tiene compagnia.
Incontro un ragazzo senegalese: “Ombrello, capo?”.
Questo è il posto dove mi ritrovo e questi sono i momenti in cui mi riconosco, ma non saprei spiegare perché.
Livorno è bella così, quando riversa sulla tua anima tutta la malinconia, allora tu fai spazio e ti lasci attraversare.

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ghiaino Io e l’ottimo Tofani mentre presentiamo il suo (bel) romanzo L’ombelico di Adamo al Café Libreria La Cité. Firenze, 7 dicembre 2013.

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ghiaino Una sera d’estate 2013. Effetto Venezia. Lettura di brani di Beppe Fenoglio alla Bottega del Caffè di Livorno per presentare le Storie Partigiane di Alberto Pagliaro.

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