Piera Ventre, Le stanze del tempo, Neri-Pozza editore
L’estensione di noi stessi
La casa è un contenitore di storie in successione. Nuovi abitanti prendono il posto dei precedenti, e così via, in una stratificazione continua. Finché arriva la ristrutturazione a mettere il punto. Cancellata ogni traccia, si riparte da capo, con ambienti ripensati e una nuova organizzazione degli spazi.
Nel libro di Piera Ventre Le stanze del tempo, edito da Neri Pozza, la casa non costituisce certo uno sfondo ma diviene essa stessa personaggio, perché pulsa di vita vera, strettamente correlata a chi in quel momento la abita: A me una casa è sempre parsa un corpo, una sorta di estensione di noi stessi e, al contempo, un’espansione.
La casa conserva la vita ed è viva. C’è un bellissimo passaggio in cui la protagonista pensa alla casa al mare, in inverno, e la immagina sofferente, costretta al buio e in attesa.
Si tratta dunque di un romanzo di case. A prima vista una serie di racconti, in realtà un corpo unico cui conferisce solidità la voce narrante, impegnata in una sorta di ricognizione generale delle case con cui ha avuto a che fare: quelle dove ha abitato, quelle dove è stata ospitata, quelle dove vivono amici o vicini. Solo che questa ricognizione avviene in ordine sparso, perché così affiorano i ricordi.
E a proposito di memoria: se le ristrutturazioni ne comportano la cancellazione, la vita umana conosce un analogo, violento strappo: quello dell’età adulta. L’infanzia appare ancora il luogo del candore, della predisposizione al gioco. Poi, implacabile, il disincanto. Ma agli anziani il destino può qualche volta riservare il recupero dell’entusiasmo e del magico, come nel caso del personaggio di Eudora.
La casa è lo spazio del perturbante, fatto di misteri, di fantasmi, di sogni e di accadimenti anomali ma nel romanzo di Piera Ventre è soprattutto il luogo delle abitudini, dei piccoli gesti che accompagnano il quotidiano – rigovernare la cucina, ad esempio – che forse davvero raccontano il senso di una vita e tradiscono segreti, proprio come fanno gli oggetti che si usano da sempre, che sono un po’ scassati ma non si buttano mai. È su di loro che si depositano i segni del tempo, in base al principio per cui la pentola fessa dura di più.
La protagonista si confronta poi con due movimenti di pari forza ma opposti che convergono sulle case: da una parte ci sono la standardizzazione, la modernità, che già si sono accaparrate città e paesi, ormai lontani da ciò che erano e mai nominati; dall’altro ci sono gli elementi naturali, la cui presenza stride nella casa in quanto costruzione artificiale – si pensi alla porzione di testo in cui la protagonista riflette sulla terra caduta dal vaso di una pianta. A ciò si unisce una miriade di animali, domestici e non solo, e insetti, con cui la casa in un modo o nell’altro si confronta. Due gli elementi più significativi, a mio avviso: la tartaruga e il nido (non a caso, da lì sembra nascere la scrittura, pare dire l’autrice).
Uno spazio a sé meritano i gatti, che hanno con la casa un rapporto tutto loro, e che nel libro sono un veicolo costante per la comprensione e il disvelamento dell’altro: basti pensare al capitolo “Cicale”, in cui il servizio di volontariato presso un ambulatorio veterinario permette di accogliere altre storie, oppure “Cespuglio di rose”, dove un gesto verso un gatto è rivelatore di una incompatibilità.
Ne emerge uno sguardo che “vigila da lontano”, che si muove con curiosità e discrezione, che cerca una giusta distanza attraverso le capacità di ascolto e osservazione: la protagonista non cerca, in ciò che la circonda, una proiezione di sé.
A questo sguardo risponde la scrittura di Piera Ventre, che si apre ad accurate descrizioni per poi individuare un inciampo, un’incrinatura da cui di solito prende le mosse la narrazione.
E l’autrice non a caso ha scelto di chiudere con l’episodio di Giuvàgiuvà, perché riassume perfettamente lo sguardo e il senso di questo romanzo. Il lettore non faticherà ad identificare l’autrice con questo personaggio, pure lui in fissa con le case. Ma dire di più sarebbe un peccato: bisogna leggere.