Simone Innocenti, L’anno capovolto, ed. Atlantide

Lo sguardo su un tempo altro

Una festa di capodanno tra una ventina di amici: questo il perno strutturale attorno a cui ruota il romanzo di Simone Innocenti, “L’anno capovolto”. Il capodanno è il momento cruciale che unifica presente, passato e futuro di un tempo che non si conosce.
C’è un’intera notte e un giorno pieno; vai a capire in che emisfero temporale va collocato il capodanno, questo tempo altro.
Un tempo che è corale, quello della serata tra amici, e un tempo individuale, quello delle singole vicende dei personaggi: un tempo spesso rapace, sfuggente o sbagliato.
Al tempo l’autore dedica pagine, riflessioni, digressioni. Lo fissa plasticamente nell’immagine della clessidra, richiamata più volte nel testo e presente sulla copertina. Un oggetto che per registrare il tempo ha da essere capovolto, appunto.
La struttura del romanzo prevede un capitolo per ogni personaggio, e l’autore ricorre via via alla prima persona, alla terza, all’indiretto libero.
Alla faccia dello spazio: ma quanto è grande questa villa? Aveva una vita propria che cresceva ogni anno di più? ‘Smettila di dire sciocchezze, Edo. Piuttosto dimmi cosa vuoi che faccia e io lo faccio’, gli dice, la voce sembra una promessa, qualcosa di nuovo.
Contrariamente a quanto avviene di solito nei romanzi corali, qui le singole vicende non finiscono per intrecciarsi e il più delle volte seguitano a procedere parallelamente. Come se ogni volta si eseguisse un assolo su sottofondo di orchestra: fuori di metafora, la cena di capodanno, cui sempre si ritorna e che racconta di un’alta borghesia annoiata, “smarginata” ed “emarginata”, per usare termini del testo, capace solo di lasciarsi vivere, paralizzata nel proprio vuoto e prigioniera di un senso atroce di solitudine, un po’ Antonioni un po’ Bunuel.
A questi personaggi non resta che coltivare un rapporto ambiguo con la realtà per caricarla di significato: Truccare la realtà per portarla al punto giusto è la condizione principale per tutto, per il tutto di lei.
Pertanto, più della realtà emerge la sua rappresentazione enigmatica: Gli enigmi sono spesso verità angolate, si divertiva a dire nella sua testa come a cercare un confronto con se stessa, un raffronto tra ciò che pensava e quello che poi usciva nella pratica: la Grande Angolatura tra pensiero e realtà. O tra pensiero e messinscena della realtà, meglio se su fogli da risolvere, settimanalmente e pagata quel tanto che serviva a vivere lì, dove non ci era andata per caso.
La realtà, dunque, finisce per rivelarsi solo attraverso segni che chiedono di essere decifrati (sempre che se ne abbiano gli strumenti): Poco fa Alessandro ha suonato al campanello della villa dei suoi amici con i soliti tre suoni secchi e brevi, precisi. A Giulio sembra, tutte le volte che li sente, il rumore prodotto dal martelletto che annuncia l’inizio di una tornata massonica e per questo – giusto un attimo – gli pare di essere nella sua loggia, anche se – dentro casa sua – è l’unico ad essere un iniziato. Vaglielo a spiegare a Giulio che Alessandro usa il campanello come una partitura musicale marittima, quella dei fischi della nave: tre suoni brevi servono a dire che la nave procede indietro tutta, va a retromarcia. Un po’ come sente la sua vita. Proprio per questo motivo è andato dove è andato, prima di essere dove è ora: solo in certi luoghi puoi ingaggiare una colluttazione col tuo destino.
L’ambientazione ai Ronchi, nella zona di Massa, restituisce queste ambivalenze e le duplicità dei personaggi, mettendo in costante rapporto – di integrazione, di contrapposizione – il mare e la montagna.
Una frase che mi è piaciuta assai è quella attraverso cui l’autore descrive a un certo punto il personaggio di Caterina: Esisteva attraverso lo sguardo e il desiderio degli altri. La prendo come una buona definizione di scrittura.