In un libro-intervista Anna Laura Braghetti, all’epoca militante delle BR, a un certo punto racconta di quando fu venduto ad ignari compratori l’appartamento nel quale era stato tenuto prigioniero Aldo Moro.
“Nel pavimento interno dello studio, in corrispondenza del perno sul quale avevano girato i cardini della libreria, era rimasto un piccolo foro. L’unica traccia di ciò che era accaduto lì dentro”.
Un piccolo foro quale testimonianza tenace di un evento epocale.
Chissà se Andrea Bajani conosce questo dettaglio. Perché il punto di partenza del suo ultimo romanzo, Il libro delle case, edito da Feltrinelli come il libro sopra citato, è a suo modo questo: una casa non è un fondale, uno scenario ma un elemento capace di incidere profondamente nell’esistenza di chi la abita. Al punto che ogni trasloco coincide con un drastico mutamento interiore, quanto meno per la parte di sé che la casa che si abbandona trattiene.
Una frammentazione che corrisponde a quella del romanzo, articolato in 78 brevi capitoli che non seguono l’ordine cronologico. Ognuno può anche essere letto per sé, non necessariamente in relazione al resto, dal momento che intercetta e fissa la circostanza emotiva che si consuma in quel determinato interno in un dato momento.
Questo consente al lettore di ritrovarsi direttamente, potentemente a tu per tu con i sentimenti messi in gioco, aggirando tutto quello che ne è a corredo: premesse, contestualizzazione, circostanze.
Il protagonista, i familiari, la moglie non importa chi siano, che lavoro facciano, che vita conducano e quali siano i motivi che li avvicinano o li allontanano. Conta solo lo squarcio emotivo che si spalanca nel momento in cui interagiscono tra di loro: litigare, parlare, fare l’amore. Tutto questo, in un continuo gioco speculare, si riverbera sull’ambiente. Che, silenziosamente e ossequiosamente, ne custodirà traccia, nonostante gli sforzi di cancellarlo (almeno con una mano di bianco) da parte di chi in futuro subentrerà.
Quelle tracce rimarranno lì, stratificate, a presidiare la memoria di quanto accaduto. Come il foro nella casa dove fu sequestrato Aldo Moro. Come la tartaruga che, sobbarcandosi la propria casa, attraversa tutto l’arco del romanzo.
La struttura messa in piedi da Andrea Bajani universalizza una vicenda per la quale il termine ‘autobiografia’ sta un po’ stretto. La scelta dei nomi dei personaggi va proprio in quest’altra direzione. Il protagonista si chiama “Io”, ma se ne parla in terza persona. Poi ci sono “Padre”, “Madre”, “Moglie”, “Nonna” e così via. Una scelta che è in sintonia con il tono della voce narrante: astratto, rarefatto, tecnico. Per intenderci, ci sono passaggi quali: “Si prenda…”, “Si pensi a…”, “che per convenzione chiameremo…”.
Una scelta coraggiosa, che offre una visione dall’alto esattamente come quella delle planimetrie in cui il lettore ogni tanto si imbatte, e che si rivela azzeccatissima nel cortocircuito prodotto con il potente carico emotivo che ogni capitolo detiene: solitudine, dolore, tentativi di trovare un senso spesso andati a vuoto. Anche le planimetrie, apparentemente asettiche, si rivelano così dei formidabili serbatoi di storie e di vita.
Allora, oggetto di meticolose descrizioni finiscono per essere gli ambienti e non i personaggi in carne ed ossa, quasi essi stessi fossero i luoghi in cui abitano i sentimenti. E il gioco non si ferma qui, perché a loro volta le case sono inserite nel contesto urbano, dialogano con gli elementi esterni: le Alpi, la luce di Roma, il freddo della notte in particolare.
Tutto si lega, tutto si tiene: lo spazio intimo e il paesaggio, il quotidiano e la Storia, per un tentativo – sempre doloroso, a volte disperato – e che a tutti appartiene, di vincere la solitudine, di percepire una sintonia. È una ricerca che si rivela una vera e propria indagine e che investe tutti, anche quelli che non ci sono ancora o non ci sono più. Ed è accompagnata dall’elemento forse capace di resistere alla frantumazione: un amore profondo e sincero per le cose della vita. Tutto è filtrato da uno sguardo a volte nostalgico, a volte deciso, sempre indulgente, anche laddove le fratture si rivelano laceranti e insanabili. Merito forse del destino comune di isolamento e solitudine.
E l’amore investe anche la parola. Attraverso uno stile denso e calibrato, ogni capitolo è un piccolo poema in prosa che tradisce la vocazione originaria dell’autore. Ne emerge l’amore per la parola in sé, essa stessa struttura abitata da un contenuto, per la quale l’autore attinge da qualsiasi ambito e provenienza, dal sottosuolo al cielo, dando a ciascuna dignità e diritto di cittadinanza.