Luca Nardini, Il gigante, ed. Robin

Il ragazzino lo sa, come si piegano i lenzuoli

Il gigante del libro è un paese in Garfagnana, sui monti della lucchesia. O meglio, era un paese, perché oggi non c’è più. È un paese fantasma, come si dice, come Fabriche di Careggine, sempre in Garfagnana, che oggi giace sul fondo del lago di Vagli dopo la costruzione di una diga. A testimonianza del paesino che fu, ogni tanto dalle acque fa capolino il campanile.
A Bugnano le campane, simbolo della comunità e del senso di comunità, non suonavano più già all’epoca dei fatti narrati, attorno agli anni 60. Il protagonista, alter ego dell’autore, trascorre i mesi estivi di vacanza dalla scuola in un paese ormai abbandonato. Gran parte delle case erano state poco alla volta acquistate dal padre per poche lire da chi ormai era emigrato in Merica e di una casa lì proprio non sapeva che farsene.
L’operazione del padre no ha niente di imprenditoriale, non anticipa agriturismi o residence. È il gesto un po’ folle di un Fitzcarraldo contemporaneo che regala a suo figlio, il protagonista, momenti indimenticabili: un paese desolato ma tutto per sé, abitato forse dai fantasmi dei vecchi paesani, minacciato da una natura che, più che proteggere, aggredisce e esige rispetto.
Qualcosa di poderoso insomma, un gigante che a un certo punto ti ingoiava e poi, a settembre, ti sputava nuovamente per la scuola e per la casa di città. Ma io ho sempre sentito che in qualche modo, così violento e vertiginoso, questo gigante ha saputo aver cura di me e inventarmi.
Nel corso del romanzo è evidente la sovrapposizione tra il padre e il paese, entrambi giganti, entrambi in grado di costituire un’alternativa a tutto, per questo veraci, vigorosi. A Bugnano si è se stessi perché il paese richiede autenticità con la sua asprezza, e si va fino in fondo anche nella voracità della vita: Non c’è il minimo dubbio che a Bugnano il cibo – cioè il mangiare – è soltanto una delle cose che si mangia. Perché nel paese, quando hai sonno, non vuol dire che hai semplicemente sonno ma hai appetito di sonno, e allora sei sonno, allora vai a letto ma non è che dormi, ma mangi il sonno. Allo stesso modo, quando ti svegli dalla notte, non è che ti svegli e basta, ma hai appetito di essere sveglio e sei sveglio, allora mangi il giorno.

Attraverso un luogo che assume sembianze umane, il testo assume a poco a poco le sembianze di romanzo di formazione, per la presa di coscienza progressiva del protagonista, che sta uscendo dall’età infantile per intravedere nuovi orizzonti. Lui è lì, è ancora fra i bambini, certo, ma capisce che c’è qualcosa di più, perché anche quel pomeriggio ha sfidato la paura, e quel qualcosa lo chiama crescere, in qualche modo sente che per forza bisogna passare da lì, da quei tentativi.

Luca Nardini alterna sapientemente la prima, la seconda e la terza persona e rivolge frequenti appelli al lettore per rassicurarlo, avvisarlo, anticiparne le reazioni o metterlo in guardia, in modo da rompere la linea narrativa e ribadire la presenza di una scrittura che non chiede l’immedesimazione. Frequenti allora sono gli approfondimenti sulle parole, sempre scelte con cura, e le riflessioni sulla poesia.
E poi c’è il dettaglio di una testa mozzata, poggiata sulle tegole di un tetto, che il bambino osserva da una terrazza: A un’occhiata distratta sarebbe parsa una pietra qualsiasi messa a fermare le tegole, anche perché in parte era coperta da uno spesso muschio verde. Ma no, bastava soffermarci lo sguardo e ti accorgevi che era proprio una testa, appoggiata su un lato, come se dormisse. Però non dormiva, perché gli occhi erano spalancati e rivolti proprio verso di te. Impauriva, eppure non c’era verso di fare a meno di andare ogni volta a trovarla.
Mi viene in mente quella sorta di installazione artistica che sono le teste di Filippo Bentivegna, nel giardino della sua casa di Sciacca, oggi museo.
Insomma, l’obiettivo (centrato) di Luca Nardini è rifuggire la rievocazione nostalgica, il bozzetto intimistico a favore di un’esperienza densa di significato, in grado di universalizzare il contenuto. Su tutti, riporto qui uno dei passaggi a mio avviso più belli del libro, quando il protagonista è impegnato a ripiegare le lenzuola con sua madre: “Lo senti come cantano, Luca?” sorrideva solo per me. Ripiegare con lei era bello, tiravi il lenzuolo fra noi due attenti a non farlo fregare per terra e poi io seguivo tutti i suoi movimenti come se fossi allo specchio. “Prendi gli angoli, sì, ora tirali su di qua, ecco, bene così…”. Alla fine delle piegature nel verso della lunghezza il lenzuolo era una strada tra noi due, distesa. Lei allora stringeva la sua estremità tra il mento e il collo e cominciava a tirarmi verso di sé, una piega, un’altra, un’altra ancora… e io alla fine, vicinissimo, le porgevo gli angoli in direzione del petto. Non ho imparato quasi nulla delle faccende domestiche, io sono cresciuto nel privilegio di essere un maschio. Ma i lenzuoli lo so come si piegano, perché la loro storia sarà legata per sempre al sorriso radioso di mia madre.